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Se Tarantino decide di girare GTA VI – Hollywood ’69

Se Tarantino decide di girare GTA VI – Hollywood ’69

“C’era una volta a Hollywood” è un oggetto misterioso. Un film-non-film, o forse la quintessenza di un linguaggio nuovo. Che forse neanche Tarantino padroneggia in pieno.


Pensavo, all’uscita del cinema, che sarebbe bello se per il film numero dieci, colpo di scena, Tarantino decidesse di scrivere un suo biopic.
La sua storia.
Decidesse di raccontarsi verosimilmente, o in modo fittizio, che poi sarebbe lo stesso, caso unico in cui un regista è in primis simulacro.
Di cosa, poi, sarebbe lui a dovercelo dire, con le parole e l’intreccio o, più probabilmente, con il mezzo puro, con lo stile.
Forse verrebbe fuori che Tarantino è simulacro, sì, ma del cinema.
Tarantino è una funzione tecnica. Applicata a un mezzo.
Tortuoso, non è vero?
Già.

Ma tant’è: “C’era una volta a Hollywood”, per Quentin, è la transustanziazione.
Il guanto dell’infinito.
Quello con cui trasformare sia il tempo (storico) che la materia (filmica).
E se una volta ti trovavi a chiederti se nel profondo della sua autorialità c’era una qualche visione satirica del reale oppure se si trattasse solo di una sorta di “Be Kind Rewind” per multimilionari, qui c’è un rilancio, enorme.
Non più, solo, divertissement citazionistico, western-non-western, scherzo enigmistico, trivia sontuoso.

Tarantino, stavolta, tenta l’impresa extra-mondo e fa un film transmediale, almeno nel DNA.
Più transmediale dei cinecomic, degli hyperpic nerboruti stracolmi di steroidi CGI e adrenalina hi-tech.
Perché, a volerlo descrivere, uno con un po’ di libertà analitica “C’era una volta a Hollywood” lo potrebbe delineare così: un grosso sandbox di guida free roaming, costruito intorno a una trama multiprospettiva e caratterizzato dal grande spessore delle trame collaterali e soprattutto dalla centralità narrativa dei PNG.

Solo che, ohibò, questo non è il linguaggio della critica cinematografica.
E, oh, questo è praticamente GTA.
Sì, il gioco.
Un VIDEOGIOCO.

Occhio, non è un caso, non è il delirio di un ludopata incallito che vede videogame ovunque, né il tentativo di cercare il colpo a effetto.
Dalla palette cromatica alla costruzione urbanistica delle location, dalla segmentazione indipendente delle varie sequenze filmiche, vere e proprie cutscene da videogame – fino al poster – tutto il film si srotola come fosse, prima che un racconto, un’architettura urbana, sincronica, iperreale (e per questo ucronica, cioè sollevata da ogni aderenza alla dimensione storica): un ambiente.
Un mondo di narrazioni, più che un’unità narrativa.

Così su una trama che sgorga da un episodio reale, l’assassinio di Sharon Tate (e dei suoi ospiti) a opera di Charles Manson e dei suoi adepti, il regista americano intesse uno spaccato di micronarrazioni a grandi linee convergenti verso due tronconi di sceneggiatura principali che, nell’eretico parallelo di cui sopra, altro non sarebbero che le missioni principali, la modalità storia.
La messa in scena non è quindi (più) trama, ma è mappa – esplorata perlopiù in auto, in frequenti sequenze panoramiche e spericolate, talvolta in soggettiva, come da tradizione del genere.
Le micronarrazioni sono avamposti.
I personaggi di contorno, appunto, PNG mononucleari che offrono side quest – le missioni di gioco secondarie – ovvero linee d’avventura a volte fulminee, a volte articolate, che si sviluppano, si ripiegano e terminano facendo salire lo spettatore di livello.

Usa l’auto.
Raggiungi la villa di Playboy.
Localizza Steve McQueen.
Parla con l’attore.
Ottimo lavoro! Hai sbloccato il personaggio Jay Sebring.
Salva partita.
Cambia avatar e completa la missione “Un nuovo ingaggio”.

Uno dei sottogiochi beat’em up. Sconfiggi Bruce Lee per conquistare una ricompensa.

A pensarci, è un’idea che dà alla testa.

Perché se è vero che da decenni cinema e videogame flirtano cercando una sutura, un punto d’incontro finale, va detto che ad oggi le strade più battute sono state quelle di operare una fusione su due piani: quello tecnico, a colpi di CGI, colori, centralizzazione della soggettiva, o quello più banale della trasposizione pura e semplice (conversione di film, o pellicola su licenza).
Con poca qualità, e non troppo successo.
Tarantino sceglie la terza via, quella meno battuta: fa leva sul genere e sulla dinamica.
Sul contenuto di fiction e sulle sue caratteristiche.
Sul gameplay, da un lato, sull’architettura della narrazione, dall’altro.
Creando un ibrido rivoluzionario proprio perché per il resto, invece, mantiene il timone drittissimo sulla squisitezza degli strumenti del cinema, in primis quelli registici.
In modo quasi ortodosso, in accordo con la sua cifra, in omaggio continuo ai suoi punti di riferimento storici e autoriali.
Insomma, il regista statunitense traccia con questo suo nuovo film una linea linguistica, basata sulla conservazione dell’identità della settima arte, ma sull’assimilazione profonda delle vibrazioni, dello spirito del “raccontare” contemporaneo, ormai geneticamente trasformato in modo inequivocabile dalla weltanschauung dei videogiochi.

Quindi siamo di fronte a un capolavoro?
No.
Assolutamente no.
In primis manca – eh, beh! – l’interattività. Che in qualche modo va sostituita con un’altra leva emozionale, se si vuole assorbire lo spettatore.
E poi questo è un esemplare sperimentale, un campione, una beta.
Un esemplare che zoppica, urca se zoppica.

Kill the nazis!

Il problema è negli equilibri, prima di tutto. Nei rapporti proporzionali tra solidità della main quest, gusto delle diramazioni, appeal dei PNG.
L’intreccio è diluito, l’autoindulgenza vistosa, per lunghi tratti non si fa che assistere a una riproposizione abbastanza egocentrica delle classiche tarantinate.
Si può dire, certo, che se vai a vedere un film di Tarantino non è della trama che ti devi innamorare, anzi, che sia quasi un folle gesto maniacale cercarla, perché tanto a te spettatore educato alla settima arte basta la sua (eccelsa) mano.
Le citazioni, il grottesco.
Le grandi carrellate laterali, il gusto dell’artigianato.
Il sangue, stavolta poco ma comunque eccessivo, straripante, sardonico.
E l’ucronia, pure, la dimensione mistica del cinema che si fa fanta-storia, le riletture del passato in cui non sai mai se stai vedendo un filmato d’archivio sapidamente manipolato o una copia anastatica rifatta oggi che però sembra ieri ma no, è oggi e tu, cinefilo, sei lì che godi quasi voyeuristicamente di quel tizio che ti mostra all’infinito i tuoi sogni filmici adolescenziali.

Si dice cinema per il cinema, e il cinema è finzione, in ultima analisi un processo mistificatorio, un gioco di prestigio, un trompe l’oeil.
Questo c’è. Tutto. Tanto. Quindi se è questo che volete, fiondatevi al cinema.
Però al netto del valore sperimentale di cui sopra questa è, diciamolo, roba da fiera.
Coll’illusionista Quentin che ti sciorina un set mozzafiato di numeri a effetto, che ti mostra inequivocabilmente che lui è un maestro, un Houdini.
Certo, poi se dalla tua hai delle megastar che accettano il tutto come un divertissement performativo, se hai una città e un’epoca e un patrimonio di memorie pop pressoché sconfinato cui attingere, è pure un po’ più facile, l’illusione. Anche perché Pitt resta un cowboy metropolitano come pochi, Margot Robbie dipinge una Sharon Tate surreale, svagata e irresistibile, DiCaprio è ormai chiaramente uno dei più grandi attori in circolazione, solo per citare i tre volti principali.
Talmente facile che ti trovi a pensare, lievemente amareggiato, che con un talento come quello di Tarantino, un cast simile e certe idee pionieristiche bastava un po’ di riflessione in più, un po’ d’equilibrio, una certa dose di colpi di forbice e un po’ meno ego.

Così, invece, resta – solo – un bellissimo, lussureggiante, stupefacente demo – non interattivo – magari da spezzettare e ricondividere, sequenza dopo sequenza, sui social.
In attesa che esca il Tarantino X, che tanto continueremo ad attendere con ansia come un dono messianico.

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