
COVID-19: Dalla crisi si esce così
Prendo spunto da una domanda rivolta due giorni fa da un amico giornalista ai suoi contatti più ferrati e competenti. In soldoni, vista la situazione, viste curve, numeri, picchi & plateau, si chiedeva quando e come ne usciremo.
Premessa: fortunatamente io non conto una mazza, non sono esperto di niente e starnazzo su un blog & da un profilo Facebook.
Ergo: godo di una certa qual libertà nello sparare minchiate, ecco, non pretendo che mi si dia retta.
Ergo: godo di una certa qual libertà nello sparare minchiate, ecco, non pretendo che mi si dia retta.
Quindi continuo imperterrito a dire la mia.
[Consiglio: rileggi la premessa, ndA]
Dicevamo: quando e come ne usciremo, allora?
La mia risposta è stata la seguente:
Mai.
Almeno fino ad acquisizione di immunità di gregge o distribuzione di vaccino.
Come ho detto in molti post precedenti a partire da metà marzo, circa, il problema di un lockdown nazionale è proprio questo: non può mai essere reale, totale, mirato.
Al netto della percentuale fisiologica di trasgressori (ohibò, certa gente delinque), occorre notare che grosse fasce di popolazione vengono legalmente escluse per ovvie ragioni produttive. Basta guardare i numeri citati da Sala un paio di giorni fa: 37% della popolazione lombarda (che da sola ha dieci volte infetti, ricoverati e decessi rispetto al resto della nazione) continua a spostarsi. Un terzo abbondante. Per necessità certificate, in gran parte (con buona pace di chi sfoga il proprio odio contro le passeggiate dei bambini o, peggio, i runner solitari), ma questo cambia poco: la valutazione non è morale, bensì funzionale. Le restrizioni non sono punitive, non si tratta di comprendere chi violi le regole e chi no.
Si tratta piuttosto di prendere atto brutalmente di una realtà oggettiva che peraltro è osservabile pressoché ovunque, dentro e fuori i confini nazionali – in tutti i luoghi in cui il lockdown interessa indiscriminatamente tutto il paese.
Perché, en passant, un conto è porre in quarantena stretta una porzione percentuale minoritaria (per quanto massiccia, in termini assoluti) di uno stato, altro paio di maniche applicare uniformemente (?) la misura in modo universale, acritico.
Perché, en passant, un conto è porre in quarantena stretta una porzione percentuale minoritaria (per quanto massiccia, in termini assoluti) di uno stato, altro paio di maniche applicare uniformemente (?) la misura in modo universale, acritico.
La prima opzione, infatti, non inficia la funzionalità del resto del paese: questo permette in primis un maggior controllo, garantisce la stabilità economico/produttiva attraverso la redistribuzione del carico, e soprattutto salvaguarda la fiducia nel futuro dei cittadini isolati: questo significa niente corse all’accumulo selvaggio, minori ansie, minor idea di non aver nulla da perdere. D’altronde la mancanza di fiducia nel futuro è da sempre uno dei principali motivi per cui un individuo, o ancor più una massa di individui, può adottare comportamenti scriteriati, o addirittura suicidi.
La seconda, invece, oltre a essere per pura estensione impossibile da controllare (e fa sorridere chi invoca l’intervento dell’esercito: come se bastasse quello, per tener d’occhio un popolo intero in modo così capillare), ha un solo modo per essere applicata senza portare al collasso globale in 48 ore: prevedere un numero enorme di eccezioni, deroghe e così via.
Trasporti, esercizi di base, filiere industriali, chi più ne ha più ne metta.
Un isolamento orizzontale come questo, per pure ragioni matematiche, abbatte la curva del contagio, smussandola, ma rendendola più lunga, molto più lunga in termini di tempo. Non si tratta di capire “epidemiologicamente” il perché.
Basta guardare i grafici.
E infatti chi analizza lucidamente e con competenza lo stato delle cose continua a parlare di tempi lunghi e probabilissima necessità di isolamenti successivi, a intervalli variabili di tempo (fate due chiacchiere con Flavia Riccardo, ISS, che proprio mentre scrivo rimarca come in Cina si stia già affrontando un’inizio di seconda ondata). La misura in essere riduce quantitativamente le interazioni, non agendo qualitativamente sulle linee di trasmissione in primis, e sulle fasce a rischio a livello “profilattico”.
Insomma: effetti collaterali devastanti sommati (questo è importante) a efficacia ridotta – che moltiplica, a causa dei tempi che impone, anche i detti danni. Strategia, a mio modestissimo avviso, suicida. Retta peraltro su una comunicazione (e non solo, cfr. l’uso dei tamponi) che usa la minaccia della letalità per ottenere il massimo rispetto delle misure restrittiva. Si tratta di un atteggiamento logico, perché ottenere seguito e ottemperanza agitando la crisi del sistema sanitario è complicato ed espone a ragionamenti tanto idioti quanto sciacalleschi (“Perché dobbiamo pagare noi per i tagli alla sanità?”). Ma è anche un atteggiamento “debole” e soprattutto sfociante in una strisciante “psicosi di massa” la cui gestione, in termini di ordine sociale, potrebbe rivelarsi estremamente difficile.
Quindi, l’isolamento è (stato) inutile?
No. Non è questo ciò che penso.
Visto il ritardo nella risposta e i molti errori commessi (sottovalutazione e passività assolute a febbraio, progressività insensata a marzo, per amor di sintesi), l’isolamento era una misura palliativa ma necessaria. Se hai un problema al motore mentre sei lanciato in autostrada, rallenti, fin quasi a fermarti. Ma poi devi pure riparare il motore, non puoi certo proseguire così per altri 500 km.

E allora si tratta di unire informazioni mediche, valutazioni economiche, proiezioni di stampo sociale, ecc., per giungere a una decisione ponderata. Che, nel caso specifico, visto quanto detto sopra, sembra a conti fatti ponderata in modo discutibile.
Trascura fattori squisitamente politico/sociali (non solamente di medio e lungo termine) in favore di una risoluzione che appare, sì, medicalmente risolutiva, ma in tempi troppo lunghi, con costi troppo alti, oppure se messa in atto in uno scenario ideale, cioè irreale – e questa è conclusione figlia di osservazioni squisitamente estranee alla medicina, politiche.
Insomma la strategia funziona (asserzione medica), ma solo se applicata a un soggetto che non esiste, o che non è in grado di sopportarla (nozione sociopolitica).Possibile che la valutazione dello scenario descritto sia stata fatta in modo così superficiale?
Sì, possibile. Al netto della grossolanità dell’errore.
Insomma la strategia funziona (asserzione medica), ma solo se applicata a un soggetto che non esiste, o che non è in grado di sopportarla (nozione sociopolitica).Possibile che la valutazione dello scenario descritto sia stata fatta in modo così superficiale?
Sì, possibile. Al netto della grossolanità dell’errore.
Altrimenti, escludendo dietrologie e complottismi, la spiegazione alternativa potrebbe trovarsi in un errore piuttosto in voga nella politica contemporanea, ovvero quello di delegare le decisioni, o meglio, assolutizzare le affermazioni dei “tecnici di settore”, lasciando quindi che “la medicina decida”, così come in passato s’è stabilito che decidesse l’economia – solo che il primato in termini di precisione, expertise, rilevanza contestuale non è sinonimo di primato decisionale assoluto. E un indizio potrebbe essere la risposta ormai quasi automatica che viene ripetuta come un mantra da tutti gli esponenti del governo quando si fanno loro domande sui piani per il futuro prossimo, su date, decreti e quant’altro: “saranno i medici a dirci cosa fare”.
Le cose stanno così, i dati parlano chiaro.
Solo che i dati non parlano: sono numeri.
Non scelgono: offrono una descrizione.
“Viviamo in un mondo di manager e tecnocrati. ‘Concentriamoci solo sulla soluzione dei problemi’, dicono. ‘Facciamo quadrare i conti’. Le decisioni politiche sono sempre presentate come esigenze, come eventi neutrali e obiettivi, come se non ci fosse scelta. Keynes notò questa tendenza emergente già ai suoi tempi”, dice Bregman – che parlava di economia, ma ha centrato il punto.
Non sarebbe storia di oggi, eh, succede da tempo, perché la politica non media più, ha abdicato alla tecnocrazia – il che non ha assolutamente niente a che vedere con la sacrosanta pretesa che a discutere del dominio tecnoscientifico siano soggetti competenti, capaci di presentare studi e asserzioni verificabili.
E poi l’alternativa, appunto, sarebbe peggiore: sarebbe l’errore grossolano. Sui fondamentali.
E poi l’alternativa, appunto, sarebbe peggiore: sarebbe l’errore grossolano. Sui fondamentali.
Si pone, a questo punto, un’altra questione: qual è la roadmap da seguire? Quale la soluzione proposta, dopo la critica?
Pure qui, serve una nota preliminare: la classe politica, i professionisti al governo, sono coloro che debbono fornire risposte solide. Evidenziare delle criticità nella loro azione non pone chi le sottolinea sotto il ricatto di dover necessariamente offrire alternativa.
Altrimenti, forse, dovrebbe trovarsi lui al governo.
E quindi mi avventuro su un campo minato, fornendo un’idea di quali debbano essere le linee guida da oggi, 2 aprile, per uscire in modo più o meno accettabile da questa atroce congiuntura.
Data la letalità relativa (e ancora impossibile da calcolare realmente, per ragioni varie) e molto selettiva (età media 79, circa) e vista l’impercorribilità di una quarantena totale lunga mesi (perché finirebbe in catastrofe VERA), la soluzione può essere soltanto un mix di misure parallele – che non esclude peraltro categoricamente l’isolamento – così articolata:
1) Controllo sierologico (attualmente in discussione), principalmente per avere uno screening sulla condizione della popolazione da cui eventualmente trarre nuove informazioni su come muoversi globalmente, eseguito a partire dalle fasce socioeconomicamente più trainanti. Diciamo a partire dalla fascia d’età 25-55, come primo intorno, per poi estendere ad anelli successivi;
2) fine isolamento globale il 13 aprile, con riapertura di un certo numero filiere produttive e di attività lavorative selezionate in base al rapporto tra fattore di rischio (ampiezza del personale, caratteristiche del lavoro, ecc.), peso produttivo e stato di sofferenza, con RIGOROSE norme igienico/sanitarie;
3) isolamento geografico dei focolai più importanti (con ritorno a zone rosse VERE), privilegiando quindi il provvedimento mirato alla misura generica;
4) tampone a “cerchi concentrici” (spesso suggerito da numerosi specialisti, Crisanti in primis) a partire dagli infetti certificati (tutto il primo grado di separazione) + quarantena stretta degli stessi; la misura, peraltro, è utile anche in termini di aumento delle diagnosi precoci, considerate da più parti assolutamente decisive nella limitazione del tasso di letalità, dato che specie per le categorie più a rischio (anziani, persone affette da altre patologie) intervenire prima di una degenerazione grave dei sintomi può essere fondamentale;
5) quarantena totale degli over-70 fino a giugno;
6) apertura delle strutture scolastiche secondarie (discorso diverso per l’istruzione primaria) non prima di inizio maggio. Servizi di ristorazione, comunque con “distanziamento sociale”, NON prima di inizio maggio. Controlli a campione legati a sanzioni molto pesanti in caso di mancato rispetto delle norme;
7) investire massimamente, ma questo è letteralmente ovvio, sia sulla ricerca di una cura, sia nell’individuazione di farmaci sintomatici in grado di ridurre il ricorso alla terapia intensiva.
La’idea, appunto, è che non si possa prescindere da una strategia combinata: il puro approccio brutale, quantitativo, è devastante politicamente, economicamente, psicologicamente e soprattutto non risolve nulla, specie in previsione del fatto che molto probabilmente si dovranno attuare anche successivamente norme restrittive “spot” in caso di nuovi picchi e/o focolai. Riapplicare restrizioni per esempio a inizio ottobre, dopo aver “bruciato” così quattro o cinque mesi, equivarrebbe a buttare della dinamite in un salotto di cristalli.
Io, comunque, nel frattempo resto a casa.
Anche perché so che ai balconi c’è gente pronta con la carabina – e scherzo fino a un certo punto.