Il virus come via crucis

Il virus come via crucis

Comunque la si pensi nel concreto su isolamento, diritti, misure restrittive e quant’altro, c’è una cosa che comincia realmente a infastidirmi ed è il mix di stucchevole retorica e strisciante autocompiacimento del sacrificio che vedo ormai esplodere in ogni dove.

Non è utile: è fosco, sterile, insensato.

Mi sembra di essere finito in un gigantesco show televisivo fatto di pauperismo, carità pelosa, banalità, un cedimento ormai assoluto all’autocolpevolizzazione, al senso apocalittico.
All’espiazione.

Uno spettacolo da pretucoli, da religione di bassa lega, con quel velo di contrizione e biasimo con cui da ogni lato si leva l’invito a ricordarci che cambierà tutto, che dovremo farci i conti, che abbiamo goduto troppo e, beh, ora è tempo di accettare che tutti si perda insieme – mentre la crisi è straordinariamente iniqua, invece, e comunque la si guardi falcia e falcerà ancora di più deboli, indigenti, fragili, economicamente, socialmente, psichicamente.
Il problema non sono gli ospedali fatti a pezzi per profitto, ma il fatto che ci eravamo abituati a questa vida loca, discinta, rutilante – non è meglio il silenzio, invece che la folla? Non è meglio apprezzare il proprio piccolo pezzetto di mondo, invece che voler proprio girare ovunque?

Esatto, in un mondo schifosamente verticale e sperequato, il richiamo moralista e fazioso alla sofferenza è un oppio, una specie di preghiera, un mantra collettivo ripetuto fino a che non si accetta tutti la bellezza della redenzione – spogliamoci insieme, rinunciamo a qualcosa tanto chi ha un unico povero straccio, quanto chi ha mantelli di zibellino e corone.

La sofferenza ci unisca, perché se si tratta di vincere ci sono sommersi e salvati, ma ora si paghi tutti insieme, uniti solo nella tragedia mentre a strillarlo è chi insieme a noi, in realtà, non è, ma pontifica vomitando mantra solidali – da terzi per terzi.
E allora risbucano fuori tutte le icone di questo genere di costruzioni tossiche, gli eroi soli e martiri, i condottieri e gli oracoli.
I motti.
Gli slogan.
Le musiche cariche di pathos.
Le invocazioni ai pochi e logori miti civili.
Le bandiere e gli inni.

In fondo non ce lo hanno sempre detto, che se il mondo va in malora – lo stesso mondo che mai è stato più ricco, capace, produttivo – tocca prendere atto che “è colpa nostra”, che l’unica è divenire tutti più poveri, farci modesti e mettere un freno ai desideri, agli appetiti, fare un passo indietro e sapersi accontentare un po’ di più, manco si navigasse nell’oro, con i loro elogi della frugalità prodotti da uno studio cinematografico?

Tutti a cantare insieme, allora, sul Titanic che affonda perché in fin dei conti è l’iceberg l’incarnazione di questo infido – e un po’ giusto, in fondo, non facciamo forse un po’ schifo noi che avveleniamo il mondo, che chissà quante malefatte, quanta hybris, quanta corruzione abbiamo da nascondere nell’anima – destino.
Il virus è la piaga divina che ci rimette al nostro posto.
Amiamo il carnefice, ché ci porta la redenzione.

Ed è bello almeno che qualcuno almeno ci guidi – grazie, oh, grazie! – per darci forza, nell’intonare questo nostro ultimo canto desolato.

Dall’alto di una scialuppa, peraltro.

 

PS: Nel caso ci si chieda il perché, di tutto questo, la risposta è semplice: consolidamento dei rapporti di potere. Arriva una catastrofe che può rimettere in discussione il sistema economico-produttivo? Meglio chiarire che “si fanno tutti sacrifici”, spostare la colpa sulla collettività uniforme, stemperare le idee di rovesciamento. Come ho già detto altrove, che questa è una crisi eminentemente borghese, nei modi, nelle soluzioni, nella discussione, nella comunicazione. Cristallizzando questo pensiero, i poli assoluti della società vengono mantenuti, le fronde mediane distanziate, attratte magneticamente ognuna dal polo più attiguo.

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